Molti pensano di esser soli a esser inghiottiti dal divano e le luci spente. E’ automatico pensarsi unici quando le parole non escono e non entrano. Con la testa poggiata su un cuscino stropicciato e la bava che cade dall’angolo della bocca. Perché nessuno sta a guardare. Soprattutto tu.
Che non ci sei.
Il cervello è sottovuoto, in un pacchetto pure difettoso, che col tempo tu dai per scontato sia conservato per bene e invece sta marcendo peggio di come non sarebbe stato se solo avessi fatto un attimo attenzione. Magari avresti organizzato una cena tra colleghi -perché gli amici a una certa, non ci sono neppure più- per consumarlo più in fretta.
In tempo.
In tempo perché non marcisca.
Invece il cervello è sottovuoto in un sacchetto mezzo aperto, con l’aria che entra e guasta quello che c’è dentro. Fa finta di esser a posto. Tutto appostissimo, giuro.
La vita, almeno quella della sottoscritta, somiglia un po’ a questa finissima metafora
Ci sono dei momenti in cui la materia prima sembra abbia speranza di avere un gusto per lo meno decente -come quei formaggi che compri al Ldl e hanno un aspetto così tedesco da convincerti che siano stati prodotti dal nonno di Heidi con l’ausilio/sfruttamento minorile di Peter-
Ci sono quei secondi che ti pigliano alla sprovvista e in cui, mentre la zucca cucina sott’acqua in una padella deformata, ti sembra che tutto stia procedendo normalmente.
E invece no
Invece sei finito dentro un pozzo. Caduto in pieno, mentre tiravi fuori le posate per la cena. Non ti sei accorto, cazzo, ma ci hai infilato prima il piede e poi giù. Pulito.
Avete mai letto un libro di Murakami Haruki? Occhio, perché o lo si odia o lo si ama.
In ogni caso, il mio preferito si intitola “L’uccello che girava le viti del mondo”. E c’è una gran parte del romanzo in cui il protagonista si intrufola e poi rimane intrappolato nel fondo di un pozzo. E da lì, quando è fortunato, riesce a vedere solo un cerchio di cielo.
Il buio. Il silenzio
Il cervello che intanto parte e ci cresce il muschio sopra.
E da là sotto come si esce?
Forse non se ne esce. O forse sì. Non saprei. So di per certo che, dopo il primo viaggio, ci si ritorna spesso e volentieri e da là in fondo, è difficile sentire tutto il resto. Come quando nei film un amico grida il nome del disperso che è ovviamente a un passo, nascosto, e vorrebbe davvero chiedere aiuto ma è paralizzato oppure sta per morire e cose così -una storia a caso Netflix per dire-
Dal fondo del pozzo si vive un po’ così, con le orecchie che funzionano ma non portano il messaggio al mittente
Ogni cosa è ovattata e niente importa per davvero. Neppure uscire da quel pozzo. Che, alla fin fine, fa pure la sua bella figura con l’umido che ti calza a pennello come un modello sartoriale. Finché la zucca magicamente non è pronta e qualcosa ti trascina nuovamente nelle faccende più banali come apparecchiare, muovere le mandibole prima di andare al cesso e poi dormire.
E mentre ti lavi i denti, mentre infili il pigiama che puzza di sudore, mentre incasini le coperte, in realtà sei ancora lì. Lo sai dal fatto che ancora non senti niente. Che il Colgate non ha sapore, che l’acqua non è fredda nè calda, che ti sbatti ai mobili senza provare dolore. E neppure ti incazzi con il nemico di sempre: lo spigolo del comodino.
Dentro al pozzo. Dove niente, per fortuna niente davvero, può arrivare a pigliarti. Neppure Real Time
O il bene, il male.
Perchè quando piove merda e tu sei in mezzo alla merda, è preferibile spegnersi dentro un cilindro profondo.
Poi, qualcuno ti tende la mano e ti tocca afferrarla. Passa anche quel soggiorno in fondo al pozzo. Breve, costante. Ma passa.
Passa come un treno sui denti.